venerdì, marzo 07, 2008

Un esercito di precari fragile e malpagato

A costo di uscire dai binari ridanciani (bello eh "ridanciani"?) che mi hanno portato al successo (iahahahah), a costo di annoiarvi a morte, a costo di totalizzare un record di 3 lettori per il mio prossimo post, voglio postare questo pezzo:

Un esercito di precari fragile e malpagato
Aldo Nove - La Repubblica


Prima che Bauman, nella sua inesausta pletora di libri "liquidi", ci consegni quello sul salario, possiamo provare a immaginarci cosa, nel nostro mondo liquido, vi corrisponda: il salario nel 2008 è indubbiamente speciale. Ha riflessi chimerici, è reso squassante dalla sua imprevedibilità, dalla sua incertezza.

"Se mi pagano" è la chiave di volta (di un edificio pericolante da troppo) del discorso sul salario oggi.

Mettiamo il lavoratore a termine, a progetto: un laureato, magari in materie umanistiche, magari giovane e dunque quarantenne, a cui viene commissionato un lavoro. In Italia parlare di salario equivale, per strana convenzione, a mettere in pubblico i propri panni sporchi: non è educazione, non si fa, ma cosa ti viene in testa.

Quindi il "giovane" laureato quarantenne di cui sopra spesso non sa neppure quanto verrà pagato. È maleducazione. Chiederlo e saperlo. Valgono le approssimazioni allucinatorie del gioco televisivo a premi in denaro: "C´è una bella sommetta" (topos del linguaggio di Mike Bongiorno secondo Eco), "I soldi ci sono", fino al paramafioso "Non ti preoccupare" sono alcune delle risposte alle timide domande sulla consistenza del salario di chi il lavoro, per necessità, lo fa "alla cieca", o quasi.

C´è qualcosa di amorale, di atrocemente comico in tutto questo: modulandosi addirittura, per scherzo epocale, sul rapporto sentimentale: chi ti dà un lavoro in fondo ti sta facendo un grande favore. Lo fa quasi per amore, sceglie te tra migliaia di altri e dunque non è bello stare lì a parlare di cifre.

Chi chiede informazioni su quanto verrà retribuito per un lavoro contravviene alle regole dell´etichetta del precario: se sapesse, che precario sarebbe? Così si sa che si dovrebbe essere pagati. Una certa cifra, in un certo modo, in un qualche tempo. "In un certo modo" significa che buona parte del tempo del neosalariato viene spesa inventando i modi (in rapporto al tempo, alle circostanze) attraverso i quali il lavoratore avrà ragionevoli speranze di recuperare quanto gli è dovuto o meglio e forse generosamente elargito: si tratta di inventare le forme di recupero di crediti che, per reattività pavloviana, spesso perdono credibilità, riducendo l´intero mondo del lavoro (la sua percezione soggettiva) a una sorta di stagismo universale. Condizione sfibrante e involutiva.

Sono in tanti, a quarant´anni, a sentirsi sotto la pressione delle ugge della "mancetta": benevoli datori di lavoro chissà se benevoli lo saranno davvero, al momento dell´erogazione, posto che un´erogazione vi sia. I bamboccioni sono in fondo adulti obbligati a restare adolescenti se non bambini dall´assoluta mancanza di serietà retributiva in un mercato del lavoro che scherza con i rapporti umani e lo scherzo, da un´intera generazione, non si capisce se avrà fine domani o tra vent´anni o mai.

Ho sentito dire (tante volte, troppe) che il lavoro "retribuito", spesso, è articolato in due poderose fasi, la seconda delle quali, fondamentalmente inedita, è la principale, più delicata e sostanziosa. La prima consiste nel lavoro, la seconda nell´attuazione della difficile retorica di telefonate, sapientemente (e nevroticamente) studiate per far sì che il lavoro volontario si trasformi in lavoro salariato.

Generalmente si attende la scadenza effettiva del tempo massimo di pagamento (supposto che sia stato stabilito: altrimenti è tutto più complicato, si procede per approssimazione) e allora si inizia a telefonare per ricordare che si dovrebbe essere pagati.

Nella mia esperienza di non specialista del lavoro ma di semplice quarantenne a contatto con altre persone sento ogni giorno persone lamentarsi di questa difficile, esasperante realtà lavorativa. È umiliante elemosinare quello che ti spetta.
Ti fa sentire davvero un bamboccione. Una strana commistione tra assenza di autostima e voglia di riscatto per riuscire a porsi in una "dialettica lavorativa" che possa semplicemente, realmente definirsi tale. Nella prassi quotidiana, uno stillicidio di aspettative sotto forma di inutili attese al telefono, di appuntamenti mancati, di verifiche quotidiane del proprio conto corrente per vedere se magicamente "quei soldi" sono poi arrivati. "Quei soldi" (e dunque non altri) sono la formula del frastagliamento di chi, per arrivare a un salario degno di essere definito tale, e che garantisca quindi la sopravvivenza, deve sommare diversi micro salari.

Come delle caricature di imprenditori al gradino più basso della scala gerarchica, i lavoratori di questo tipo (spesso laureati) accumulano ansie inaudite in un vissuto del tutto probabilistico della propria realtà salariale.

Questa è la cifra principale del precariato: aver fatto un lavoro (una serie di lavori), dover avere di conseguenza una certa cifra sul conto corrente e ritrovarsi a chiedere prestiti (generalmente, ovviamente ai genitori) perché quella cifra (quella somma di cifre) non c´è, va "sollecitata", forse arriva domani e così per mesi. Il pericolo maggiore è che nell´Italia del 2008 si arrivi a un´assuefazione. Psicologicamente è già avvenuto. Ma solo psicologicamente e per fortuna.

C´è un margine di resistenza oltre il quale non è possibile andare, ed è quello della corporeità: detto in altre parole, fino a che si mangia si può scherzare. Si può scherzare con la dignità spazzata via del lavoratore, con la sua riduzione d´ufficio a pedina insignificante della contrattazione.

Ma oltre un certo livello non si scherza più. Quel livello è quello della fame. La fame vera. In Italia non ci siamo ancora arrivati. Ci si "arrangia": a scapito della propria dignità, in un sogno guasto riempito di telefonini e distrazioni a basso costo da mondo incantato per adulti.

Ma appena i "bamboccioni" (è la terza volta che lo scrivo: scusatemi, ma è un termine di una violenza, di un´ottusità micidiale, a suo modo, satanicamente, geniale) cominciassero a stare davvero male, a non avere di che mangiare, salta tutto. Si chiama rivoluzione e la fanno direttamente le pance. Prima c´è il limbo dell´attuale condizione salariale.

3 commenti:

  1. porca maiala vacca, non riesco a mettere quella simpatica opzione di splinder dei commenti recenti nella sidebar.
    comincio a capire perché tutti hanno il blog su splinder tranne me.

    RispondiElimina
  2. mi viene da piangere..
    non ho 40 anni ma il resto è uguale
    che tristezza..

    RispondiElimina
  3. piangerei anche io ma non posso, sarebbe poco virile.

    RispondiElimina